Occorre premettere che dopo la metà degli anni Ottanta non tutte le annate sono state uguali; alcune sono state eccezionalmente calde e siccitose altre piuttosto fresche e piovose. Si è verificata una grande variabilità tra il nord e il sud del nostro Paese, con annate tendenzialmente regolari nel meridione, coerenti con il luogo anche se caratterizzate spesso da una maggior piovosità rispetto al passato, decisamente più irregolari al Centro-Nord, con precipitazioni eccessive oppure carenti e un aumento delle temperature medie stagionali. Quindi l’area dove i cambiamenti climatici sono stati più evidenti è stata quella Centro-Settentrionale. Queste mutate condizioni ambientali hanno creato nella vite un anticipo generalizzato delle sue fasi fenologiche, a partire dal germogliamento per giungere alla vendemmia.Se per le varietà tardive questo non è affatto un problema, lo diventa invece per quelle precoci tipo il Merlot e lo Chardonnay, perché la loro maturazione arriva in un periodo troppo caldo che porta a degli squilibri che si traducono in un abbassamento dell’acidità e del ph, in un eccessivo innalzamento degli zuccheri, nella presenza di tannini non ben polimerizzati e in una incompleta maturazione aromatica. Tutti questi fattori portano a una perdita di finezza nel vino, con una propensione minore all’invecchiamento e maggiore all’ossidazione. Ma ci sono anche dei vantaggi sul piano della sanità delle uve, che generalmente hanno bucce più spesse e hanno bisogno di minori trattamenti antiparassitari in generale e antimuffa in particolare.
Il clima e la storia economica e sociale dell’Europa
La storia della viticoltura europea è la storia dell’adattamento ai cambiamenti climatici che si sono susseguiti fin dagli albori della nascita dell’agricoltura. La lotta contro la dittatura del clima si è sviluppata nelle fasi iniziali con la delocalizzazione, come è avvenuto con la scomparsa della viticoltura dalle vallate alpine e dalle regioni del nord Europa dopo l’“optimum climatico medievale”. La vite è una pianta emblematica nella ricostruzione del clima in Europa. Lo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, analizzando i diari dei parroci ed i registri dei monasteri, ha raccolto in un saggio del 1983 le vicende climatiche dell’Europa degli ultimi mille anni, concludendo che le guerre, le carestie, le epidemie, le grandi emigrazioni sono sempre coincise con i grandi cambiamenti climatici. Il cambiamento varietale, con la scelta e spesso l’importazione di specie in grado di superare le crisi climatiche, ha fornito il maggior contributo adattativo. Un esempio è dato dall’introduzione in Champagne dello Chardonnay e del Gouais in sostituzione del Pinot nero e di altre varietà originarie, avvenuta durante la “piccola glaciazione“ occorsa tra il XIV e il XVIII secolo. Così accadde nel Veneto, dove molte varietà tardive furono abbandonate dopo la grande gelata del 1709: alla ripresa di condizioni climatiche favorevoli, la forte richiesta favorì la coltivazione di vitigni più produttivi a discapito di quelli più qualitativi. E ora la storia si ripete: lo si può notare nella Heathcote australiana, dove al posto di vitigni provenienti dalle regioni continentali europee si stanno introducendo varietà dell’Italia centro meridionale (Montepulciano, Nero d’Avola, Sagrantino, Aglianico).
Un contributo importante, anche se non decisivo, nel contrastare gli effetti negativi del clima è arrivato anche dalle scelte di tecnica colturale, come l’adozione di forme d’allevamento con diversa architettura dell’apparato fogliare o le sistemazioni dei suoli più favorevoli all’intercettazione dell’energia solare, che hanno modellato rive di fiumi e laghi europei.
Le conseguenze sulla fisiologia della vite sono molto evidenti, come dimostrano gli effetti della carenza idrica, lo sfasamento delle fasi fenologiche, gli effetti ossidativi sull’attività fotosintetica, l’alterata sintesi dei composti secondari (polifenoli ed aromi) che sono alla base della qualità del vino. Da non trascurare anche le interazioni con il ciclo dei parassiti animali e vegetali e con le caratteristiche fisico-chimiche e microbiologiche del suolo.
“La storia non è altro che il presente che prende coscienza del passato” (J. P. Sartre).
L’Italia è in preda ad un incantesimo ideologico che esalta il passato, in cui domina l’idea che si possa costruire sulla nostalgia e sull’esoterismo una prospettiva economica futura per la viticoltura. La ricchezza di un Paese ed il suo benessere dipendono da molte circostanze, ma due sono imprescindibili: la libertà individuale e lo sviluppo scientifico. Investire nella scienza e scommettere sull’innovazione significa pensare al futuro ed il futuro è rappresentato dal miglioramento genetico e dall’applicazione della space economy. Vannevar Bush, un maestro del pensiero scientifico occidentale, pubblicò nel 1945 il “Manifesto per la rinascita di una nazione”. Il sottotitolo recitava: “La scienza può contribuire al benessere della nazione solo all’interno di un lavoro di squadra. Ma senza il progresso scientifico nessun risultato in altre direzioni, per quanto grande, potrà mai assicurarci la salute, la prosperità e la sicurezza necessarie ad una nazione del mondo moderno”. Un messaggio da condividere per dare nuovo impulso alla ricerca viti-enologica italiana, per trasformare tutti assieme un problema in un’opportunità. Sicuramente l’uomo ne è responsabile in buona parte. Ma siamo anche in un momento di una fortissima attività solare che determina cambiamenti climatici. Essa ha conseguenze sull’alzamento progressivo della temperatura, la temperatura media in venti anni è aumentata di 1,5 gradi. Questo può apparire poca cosa, ma in realtà ha conseguenze molto gravi sia sulla vegetazione che sulla vita degli animali.
Altra questione è quella legata alla siccità
Negli ultimi anni è cambiato sia il tipo sia la frequenza delle piogge. Oggi sono sempre più frequenti piogge a carattere torrentizio, che scaricano grandi quantità di acqua in periodi talmente brevi che l’acqua non riesce ad essere assorbita dal suolo scorrendo via sulla superficie. In questo modo il terreno non riesce a “dissetarsi” adeguatamente, nonostante la pioggia.
A medio-breve periodo abbiamo due strategie, a livello agronomico e a livello enologico.
A livello agronomico bisogna imparare a condurre una viticultura secondo i principi della aridocoltura. L’esperienza di Paesi come la Spagna per esempio che affronta queste problematiche da molto tempo può esserci molto utile. È un concetto che può essere facilmente compreso al Sud ma non altrettanto al Nord. Bisognerebbe che anche al Nord si cominciassero ad usare varietà e portainnesti tipici delle regioni meridionali. Varietà a maturazione tardiva e capaci di mantenere un alto livello di acidi organici e portainnesti dotati di una maggiore capacità di trasporto di acqua. Servirà anche cambiare tipologia dei sesti d’impianto, lasciando più spazio a disposizione delle viti. I tempi degli impianti fitti sono finiti. Si passerà inoltre a forme di allevamento più basse, e non servirà più avere pareti fogliari di 1 m per chilo di uva. Oggi basterebbe la metà. Cambierà anche la gestione della chioma, è importante che essa sia capace di proteggere i grappoli da bruciature del sole quando cominciano ad invaiare. Saranno poi necessarie lavorazioni frequenti del suolo per evitare l’evaporazione e la perdita dell’acqua per capillarità, rompendo proprio i canali capillari del terreno tramite cui l’acqua risale in superficie. Le concimazioni fogliari per esempio avranno più importanza rispetto al passato. L’azoto è fondamentale per le piante, ma se l’assorbimento dal terreno sarà limitato a causa della scarsità di acqua, sarà necessario irrorarlo direttamente sulle foglie. Il potassio non verrà più utilizzato perché aumenta il pH. Sará invece importante praticare lavorazioni superficiali del terreno, perché il potassio viene assorbito proprio negli strati superficiali delle radici.
Un altro aspetto importante sarà il monitoraggio della maturazione dell’uva: prima i tempi erano più dilatati ed i tempi di reazione più lunghi, ora ci vuole grande tempestività. Bastano pochissimi giorni per rovinare la vendemmia, se si perde il momento giusto. Il monitoraggio della maturazione è fondamentale.
La pianta avrà sempre più difficoltà a polimerizzare i tannini. Quindi si rischia che cambi proprio il gusto dei vini, che avranno un tannino più verde ed amaro. Cambierà anche la modalità di affinamento dei vini. Essendo i vini più alcolici rispetto al passato, l’alcol estrarrebbe troppi aromi dai contenitori in legno, in particolare dalle barrique. Si dovranno quindi valutare altri tipi di contenitori o tempi e modalità di affinamento diversi da quelli praticati in passato. La conduzione corretta dei vigneti del futuro si baserà su due fattori, previsione e tempestività di azione. Prevedere e reagire tempestivamente, le parole d’ordine. Si useranno sempre di più le nuove tecnologie, come ad esempio quelle derivanti dall’uso dei satelliti e di modelli matematici predittivi basati su paramenti ambientali precisi e locali basati sui singoli vigneti dove si opera.
A medio lungo periodo la soluzione ce la darà la genetica: incroci tra varietà per creare dei vitigni maggiormente adatti a climi caldi e molto luminosi
La genetica è una scienza recente, nata alla fine dell’Ottocento, anche se le sue teorie cominciano ad essere applicate solo dopo la Prima Guerra Mondiale. Ha una storia breve e questo incute un po’ di paura. Non si insegna a scuola o si insegna male e quindi non abbiamo la percezione del grande sviluppo che può portare la genetica, nel campo della viticoltura e non solo. La genetica può essere applicata sia su varietà che su portainnesti, incrociando geni di diverse varietà. All’università di Milano abbiamo creato la serie M di portainnesti, quattro portainnesti pensati per superare la crisi climatica ambientale, con necessità idriche notevolmente inferiori e da quest’anno disponibili all’acquisto da Rauscedo. La ricerca continua e sono convinto che questi portainnesti in futuro avranno una sempre maggior importanza e diffusione.
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E il futuro quando potrà diventare realtà?
di Walter Filiputti
Il timore del nuovo sta contagiando – negativamente – anche la ricerca in viticoltura che, attraverso gli incroci e la cisgenesi, ha trovato una soluzione radicale al problema dell’uso di fitofarmaci nei trattamenti della vite contro l’oidio e la peronospora. Un sentimento di repulsione trasversale che coinvolge anche altri settori, medicina in primis. Come ci raccontano, qui di seguito, alcuni autori:
Osserva Andrea Prencipe, rettore dell’Università Luiss Guido Carli: “I casi dei fallimenti illustrano l’incapacità delle organizzazioni di liberarsi dalla routine. Così come le routine guidano ed informano il funzionamento delle organizzazioni, esse conferiscono, per loro natura, rigidità all’agire organizzato rendendole resistenti al cambiamento di qualsiasi natura. Due esempi di fallimenti: nonostante Kodak avesse, per prima, lanciato sul mercato la prima macchina fotografica digitale, preferì la certezza delle macchine analogiche (quelle coi rullini, i quali generavano un immenso cash-flow), all’incertezza del digitale e fallì. Nokia non comprese di abbandonare in tempo la certezza dei telefonini tradizionali per gli smart phone e chiuse anch’essa. Le organizzazioni restano intrappolate nelle loro routine, incapaci di generare nuove domande e identificare nuovi problemi. Innovare implica, invece, saper navigare l’incertezza attraverso la generazione continua di nuove domande” (“Corriere Innovazione”, 29.03.19).
L’11 gennaio 2019 appare sui giornali italiani una notizia talmente bella ed inaspettata alla quale far fatica a crederci: l’immunologo Guido Silvestri (che guida, all’Emory University di Atlanta negli USA, 200 medici e ricercatori su otto ospedali) e Roberto Burioni, amico di Silvestri e pure lui immunologo (insegna all’Università Vita-Salute San Raffele) hanno convinto Beppe Grillo e Matteo Renzi a firmare il “Patto per la Scienza” da loro stessi messo a punto. Due nemici politici – Grillo e Renzi – che si ritrovano uniti nella difesa della scienza.
Maurizio Ferrara, il 12 gennaio osserva sul “Corriere della Sera”: “Il Patto sulla Scienza dice cose molto semplici, che dovrebbero essere scontate in ogni democrazia liberale. Primo: la scienza è un valore in quanto produce conoscenze affidabili sul mondo e ci indica sia come trarne vantaggio sia come evitare danni. Secondo: occorre combattere la pseudo-scienza. Chi stabilisce i criteri e chi accredita la qualità di un lavoro scientifico? La comunità scientifica e solo questa. La scienza non ha colore politico”.
Scrive Antonio Pascale in Pane e Pace, il cibo, il progresso, il sapere nostalgico (Chiarelettere, 2012), a proposito della paura dell’innovazione e della ricerca scientifica in generale: “Preferisci essere curato da un dentista degli anni Quaranta, con quegli strumenti e con quella anestesia, oppure da uno moderno? Chi risponderebbe “meglio i rimedi del vecchio dentista?” Perché dunque in altri campi dovrebbe essere diverso? Perché un rimedio contro gli insetti ritenuto naturale solo perché antico dovrebbe essere più sano? Possibile che non c’interessa l’innovazione? Possibile che siamo così concentrati sui nostri dolci ricordi e così poco attenti agli strumenti moderni? Alla fine la responsabilità è sempre del suddetto inquinante culturale, il sapere nostalgico, un inquinante culturale che fa più danni di un residuo chimico, ovvero la convinzione che tutto quel che è accaduto nel passato abbia un grande valore, mentre tutto ciò che è presente è corrotto”.
Il nuovo terrore del progresso è il titolo di una lunga riflessione di Pierluigi Battista, apparsa su “Style”, gennaio-febbraio 2014. “Viviamo in un’epoca in cui l’innovazione socialmente utile fa fatica ad affermarsi, viene ostacolata dal pregiudizio, asfissiata da una nuova ondata superstiziosa. Certo, siamo attentissimi ai nuovi modelli di smartphone, all’ultimo grido del tablet, ma siamo sazi di novità che possono cambiare veramente in meglio la vita di milioni di persone… Si alimentano le paure più irrazionali. Diventiamo creduloni, diamo retta a ogni allarme, giustifichiamo ogni proibizionismo, demonizziamo chi viene descritto come un untore intento a distruggere l’idilliaca armonia della natura”.
Atul Gawande, nel suo libro Ceck List. Come fare andare meglio le cose” (Einaudi), lamenta questa nuova “Lentezza delle idee, davvero imprevista in un’epoca in cui tutto sembra aver preso una velocità supersonica”.
Nel recensire il libro di Jonathan Franzen, La fine della fine della Terra (Einaudi, il tema è il riscaldamento globale), Telmo Pievani riporta il pensiero dell’autore il quale afferma “che sia la nostra mente sia il mondo sociale ed economico attuale sono progettati sulla miopia. Il cambiamento climatico è una trappola cognitiva. Ci siamo dentro, ma non siamo capaci di pensarlo davvero”. E qui cala una frase che ci fa pensare e molto: “Siamo programmati per non essere lungimiranti. Negazionisti o illusi, ci penseremo quando sarà il momento” chiude Franzen “cioè quando il pericolo sarà imminente o forse sarà troppo tardi”.
Che sia davvero così? Siamo programmati per non essere lungimiranti? Molti passaggi della storia mondiale recente ce lo fanno pensare.
Ha fatto scalpore il libro di Marco Bentivogli (segretario del sindacato Fim-Cisl) Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia la riscossa del lavoro dell’Italia (Rizzoli). “Fermare il progresso non solo non è possibile ma è quanto di più pericoloso si possa fare per l’occupazione”. Nelle fabbriche calano le mansioni ripetitive e aumenta l’ingaggio cognitivo dei lavoratori. Osteggiare la trasformazione tecnologica come fecero i luddisti nella Prima rivoluzione industriale significa semplicemente rinunciare a partecipare a una grande sfida. Per questo l’aspetto più importante dei contratti di lavoro che verranno firmati in futuro sarà quello che Bentivogli chiama “diritto soggettivo alla formazione”, poiché l’uomo è tecnologico da migliaia di anni e deve tornare, grazie appunto alla formazione, a orientare il progresso. Il digitale è una grande opportunità per riportare il manifatturiero avanzato al centro. Chi dice che finirà il lavoro nel 2054 (studio Casaleggio Associati, n.d.r.), lo fa con un’attendibilità simile alle interpretazioni del calendario Maya sulla fine del mondo nel 2012. La fine del lavoro è una fake news, la peggiore”.
Roberto Burioni è autore di due libri di alto impegno scientifico e sociale: Il vaccino non è un’opinione e Balle Mortali. Meglio vivere con la scienza che morire coi ciarlatani, dove elenca i danni, spesso mortali, causati dalla pseudo-scienza di ciarlatani senza scrupoli. “Il mondo moderno travolge la gente con una sovrabbondanza di informazioni che è disorientante e pericolosa per la mente”. Sono sicuro, rivolgendosi al lettore, che ognuno di voi pensi che questa frase si riferisca alla rete e ai social media, e che sia sacrosanta. Invece l’ha scritta nel 1550 Conrad Gessner, un bibliofilo svizzero. E si riferiva alla stampa, da poco inventata da Johannes Gutenberg. Osserva Burioni: “L’arrivo di nuovi mezzi di comunicazione ha sempre portato grandi sconvolgimenti e in quei momenti non tutti riescono a cogliere immediatamente l’impatto che questi cambiamenti possono avere sulla società” e cita un esempio del nostro tempo: “Da un decennio possiamo combattere il virus del papilloma umano, un agente infettivo che causa diversi tipi di cancro, con un vaccino. Avete capito bene, un vaccino contro il cancro. Un vaccino che stando ai dati scientifici, è sicuro ed efficace. Un vaccino che – nonostante in Italia sia disponibile gratuitamente – viene sempre più rifiutato ogni anno che passa. Albert Einstein sosteneva che “tutta la nostra scienza, al confronto con la realtà, è primitiva e infantile. Eppure è la cosa più preziosa che abbiamo”.
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Lotta per la vita (Battle for life)
di Michele Morgante e Raffaelle Testolin
“Perché questa situazione di rifiuto e timore della scienza?
Ce lo spiega Darwin, il padre del concetto di evoluzione. In breve, possiamo dire che le piante evolvono assieme ai patogeni loro ospiti, sviluppando continuamente resistenze; questi microorganismi a loro volta devono mutare e selezionare ceppi che superano le singole resistenze in una eterna lotta per la sopravvivenza. “Battle for life” la chiama Darwin nel suo The Variation of Animals and Plants under Domestication pubblicato nel 1868.
Vitis riparia è una vite selvatica spontanea dell’America settentrionale. Decidessimo di fare un coraggioso trekking nelle regioni orientali del Nord America, troveremmo piante di V. riparia resistenti e piante sensibili alla peronospora. Se poi avessimo la pazienza di raccogliere e analizzare anche il fungo, troveremmo ceppi che attaccano alcune piante di riparia e non altre. Detto in termini un po’ più scientifici, troveremmo popolazioni di V. riparia caratterizzate da piante sensibili e piante resistenti a peronospora e quelle che sono resistenti ad un determinato ceppo del fungo non lo sono nei confronti di tutti i ceppi.
Perché questa varietà di viti e di ceppi fungini? Perché la coevoluzione della pianta e del patogeno ha portato la vite a sviluppare resistenze e il fungo a superarle. Entrambi con l’obiettivo, alla lunga, di sopravvivere”.
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Il lavoro dell’Università di Udine e dell’Istituto di Genomica applicata
di Walter Filiputti
Nel 1998 gli allora giovani ricercatori e docenti dell’Università di Udine – Michele Morgante, Raffaele Testolin ed Enrico Peterlunger – presentarono all’Assessorato all’agricoltura del Friuli Venezia Giulia un progetto a lungo termine per la costituzione di “viti resistenti alle malattie”. Sono partiti da un piano di incroci tra le migliori selezioni resistenti presenti in vari istituti di ricerca in Germania, Francia, Austria, Ungheria, Serbia e alcuni vitigni di grandi qualità.
Nel 2006 Gabriele Di Gaspero, Michele Morgante, Alberto Policriti e Raffaele Testolin danno vita all’Istituto di Genoma Applicata (IGA), un’associazione senza scopo di lucro sorta come spin-off dell’Università di Udine e Friuli Innovazione, con sede nel Parco Scientifico e Tecnologico “Luigi Danieli” e che si affianca al progetto iniziale dopo aver partecipato con successo al sequenziamento del genoma della vite con un gruppo italo-francese, finanziato dai due governi. IGA ha messo a disposizione del progetto dei ricercatori di Udine le sue conoscenze sul genoma della vite, partecipando alla selezione.
Dopo 15 anni sono arrivati i primi risultati. UNIUD e IGA, alla fine del 2013, hanno presentato domanda al Ministero delle Politiche agricole per l’iscrizione di 10 varietà (5 a bacca bianca e 5 a bacca rossa) resistenti a peronospora e oidio e con caratteristiche enologiche interessanti.
Testolin e Peterlunger sono concordi nel dire che bisognerebbe spostare l’attenzione non sulla varietà, ma sul territorio:
“Negli anni Sessanta del secolo scorso avevamo, in Europa, quasi un milione di ettari di ibridi (vite americana), dei quali 300.000 in Italia e 500.000 in Francia. Una direttiva europea decise di proibirne la coltivazione per evitare di perdere il patrimonio di varietà di vite europea accumulato nei secoli. Noi l’abbiamo fatto abbastanza velocemente, mentre la Francia non mollava. Ora come si mettono le cose? I Paesi del Nord Europa vorrebbero fare vino con le nuove viti resistenti”.
E il futuro quando potrà diventare realtà?
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Cos’è il miglioramento genetico tramite incrocio e selezione?
di Michele Morgante, Enrico Peterlunger e Raffele Testolin
Molte piante coltivate sono organismi geneticamente modificati rispetto alle piante selvatiche da cui derivano e lo sfruttamento di tali modifiche che avvengono spontaneamente in tutti gli organismi viventi è intrinseco all’agricoltura. Non ha dunque senso giudicare a priori come pericolosa o negativa una modifica genetica, bensì è il suo effetto (la pianta risultante) che va analizzato e valutato.
Il presupposto fondamentale per il miglioramento genetico è la variabilità genetica, cioè la disponibilità di piante con caratteristiche diverse ma appartenenti alla stessa specie o specie molto simili e comunque sessualmente compatibili, tra cui individuare quelle con le caratteristiche desiderate. Le cellule contengono almeno due copie di ogni gene, denominate “alleli”. Come noto, ogni individuo riceve una copia da ciascun genitore. I due alleli possono essere identici, ma spesso presentano piccole differenze dovute a mutazioni casuali. L’incrocio fra individui genera nuove combinazioni di alleli e quindi nuova variabilità genetica. Il numero dei geni varia da circa 25.000 a 80.000 a seconda della specie e dunque il numero delle possibili nuove combinazioni da sottoporre a selezione è così grande da poter essere praticamente considerato illimitato. Per ottenere piante migliori, il selezionatore sceglie le piante da incrociare (parentali) e cercherà poi nella progenie le piante con nuove combinazioni di caratteristiche desiderate.
Quando si desidera ottenere nuove varietà interessanti bisogna “ripulire” la pianta dai geni indesiderati che sono stati ereditati insieme a quelli desiderati, specialmente quando uno dei genitori è una pianta selvatica che è inadatta alla coltivazione. A questo scopo, per diverse generazioni si realizzano successivi re-incroci con il genitore coltivato, in modo da eliminare quanto più possibile i geni “selvatici”. Il risultato finale sarà quindi una pianta quasi identica al genitore di buone caratteristiche qualitative, che conterrà poche decine o centinaia di geni della pianta donatrice, tra cui ovviamente quello o quelli che conferiscono la caratteristica desiderata, e manterrà nel contempo tutte o la maggior parte delle proprie caratteristiche positive. Questa procedura è definita “introgressione tramite reincrocio” ed è ad esempio largamente utilizzata per introdurre nuovi geni di resistenza ad agenti patogeni individuati in piante selvatiche o meno addomesticate.
L’Università di Udine in questo momento nella vite fa solo incroci tradizionali, per una serie di ragioni.
È necessario distinguere i problemi della classificazione come ‘ibridi’ delle varietà ottenute per incrocio dal problema dell’uso del nome del genitore più noto. Il ‘Sauvignon Rytos’, ad esempio, è un incrocio tra ‘Sauvignon blanc’ e ‘Bianca’ (una selezione resistente alle malattie). I francesi (spalleggiati dagli italiani) vorrebbero che non usassimo il nome ‘Sauvignon’ per questa nuova varietà resistente, ma vorrebbero che la chiamassimo per esempio ‘Rytos’, senza fare riferimento al genitore ‘famoso’. A noi ricercatori questa sarebbe una posizione in parte comprensibile, ma i più importanti gruppi vitivinicoli italiani opportunamente intervistati sostengono che senza fare riferimento alla varietà nota sarebbe estremamente complicato vendere il relativo vino. Per quanto riguarda l’aspetto organolettico, Sauvignon Rytos ha 50% di sangue di Sauvignon Blanc e 50% di sangue di Bianca, ricorda il profilo aromatico di Sauvignon rendendolo praticamente indistinguibile in degustazione alla cieca dal genitore salvo qualche nota che lo rende ancor più qualitativo.
Un ‘Sauvignon’ ottenuto per cisgenesi o per genome editing è un vero ‘Sauvignon’ perché porta per intero il genoma di ‘Sauvignon’, a parte un gene di resistenza (sui 25.000 che ha la vite) introdotto con la tecnica della cisgenesi o una piccola modifica ad un gene di resistenza ‘inattivo’ che viene reso attivo attraverso una modifica della sequenza del gene attraverso la tecnica del genome editing”.
Negli USA il genome editing è già autorizzato non solo per la vite, ma anche per la frutta. Idem in Cina e India. Al parlamento europeo c’è una proposta per l’OCM vino 2020 che chiede di utilizzare queste varietà resistenti e di utilizzarle sia per le IGT sia per le Doc. Unica opposizione. Di chi? Dell’Italia. Perché?
Anche l’INRA (l’Istituto di Ricerca Agrario Francese) ha cambiato posizione e li ha accettati. Ora noi abbiamo la varietà resistente “Soreli” autorizzata nella Francia del Sud. Spiega Testolin: “Gli incroci tradizionali si fanno da sempre. Per loro il problema è che, mentre in alcuni Paesi le selezioni ottenute da incrocio che portano geni di resistenza alle malattie vengono classificate come ‘vinifera’ e vengono ammesse alla coltivazione ‘tout-court’ (vedi la Germania, ma non solo), in altri Paesi (tra questi l’Italia) queste selezioni resistenti vengono classificate come ‘ibridi’, perché derivano da incroci iniziali (parliamo della fine ‘800, primi ‘900) con specie americane, diverse dalla vite europea (V. vinifera) e, pur essendo a tutti gli effetti pratici molto simili alle ‘vinifere’, conservano tracce del sangue americano. La classificazione come ibridi li condanna ad essere esclusi delle Doc/Docg. La Corte di Giustizia europea è intervenuta sulle tecniche di trasformazione genetica mediante genome editing, una tecnica di biologia molecolare che non lascia traccia della manipolazione e dà risultati analoghi alle mutazioni spontanee che avvengono in natura. La corte ha detto che anche le piante ottenute con questa tecnica sono OGM, mettendo in croce i ricercatori, che contavano molto su queste tecniche per conservare le varietà tradizionali rendendole resistenti ai patogeni con un intervento molto soft”.
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Cos’è il miglioramento genetico tramite trasferimento orizzontale dei geni?
di Michele Morgante, Enrico Peterlunger e Raffele Testolin
L’introduzione nel genoma di una sequenza di DNA proveniente da un individuo che può essere della stessa specie o di qualunque altra specie, ma non è un genitore, è chiamata trasferimento “orizzontale” di geni, per distinguerla dal trasferimento “verticale” fra genitori e figli.
Gli organismi formati con intervento di trasferimento orizzontale mediante ingegneria genetica sono classificati in tre gruppi:
· transgenici: la sequenza di DNA inserita proviene da un organismo che non si può incrociare sessualmente con l’organismo ricevente;
· intragenici: le sequenze di DNA provengono dalla stessa specie in cui vengono inserite o da specie sessualmente compatibili e possono essere combinate in modo nuovo rispetto a quanto si trova in natura;
· cisgenici: la sequenza proviene dalla stessa specie che viene trasformata o da specie sessualmente compatibili; la sequenza non è stata modificata e conserva la propria porzione regolatrice.
Gli organismi così prodotti sono, ad oggi e ai sensi della normativa europea, tutti definiti Organismi Geneticamente Modificati (OGM). A differenza di quanto avviene con l’ingegneria genetica tradizionale, il genome editing consente di generare in una varietà coltivata una qualsiasi mutazione favorevole che sia stata individuata in individui selvatici o specie affini, senza introdurre nuovi geni, andando a modificare in maniera puntuale la sequenza già presente nell’organismo e generando organismi indistinguibili da quelli presenti in natura o ottenuti per mutagenesi indotta.
Cisgenesi e genome editing rientrano in quelle che sono definite oggi New Plant Breeding Techniques, NPBT. Rispetto alla tecnica tradizionale di incrocio entrambe evitano i tempi lunghi delle diverse generazioni di reincrocio e introducono la sola caratteristica desiderata, evitando che la nuova pianta contenga altre porzioni del genoma della specie donatrice oltre al gene che si desidera trasferire come invece avviene con l’incrocio. È inoltre importante considerare che per coltivazioni tipiche dell’agricoltura italiana, come ad esempio vite, olivo, agrumi, il normale incrocio distruggerebbe l’identità legale della varietà, un problema che genome editing e cisgenesi possono evitare: un carattere che interessa può essere modificato senza alterare alcuna altra caratteristica che rende tipica o unica una varietà coltivata. In tal modo si può, ad esempio, ridurre l’uso di pesticidi in viticoltura introducendo per via genetica nei vitigni coltivati la resistenza a funghi parassiti senza dover ricorrere all’incrocio. Sia con l’editing sia con la cisgenesi potremmo conservare la biodiversità perché potremmo rendere resistenti e quindi sostenibili le varietà tradizionali senza andarne a creare di nuove ed addirittura potremmo mantenere la diversità dei vari cloni di una famiglia: un esempio di come l’innovazione possa proteggere la tradizione.
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