Garlatti Costa Severino, oltre che birraio in proprio, è il presidente dell’Associazione Artigiani Birrai del Friuli Venezia Giulia. Il sodalizio ha lo scopo di interloquire con le Istituzioni regionali, sia per definire le leggi regionali sui birrifici artigianali sia per partecipare a eventi come Friuli DOC, Gusti di frontiera, Barcolana. Ma non solo: lo stare assieme favorisce i contatti tra le varie aziende per affrontare problemi comuni.
“Il gruppo funziona – ci dice il Presidente – e, a parte qualche raro caso, non ci sono gelosie. Agli inizi del movimento birrario artigianale il numero di aziende è cresciuto lentamente. Dal 2010 l’incremento è stato esponenziale fino al 2018. In quell’anno la curva è iniziata lentamente a scendere. Nel 2022 si nota una ripresa. La verità è che, oltre alle problematiche legate alla pandemia, ci sono più birrifici sul mercato e la concorrenza si fa sentire”.
Il parere di Garlatti Costa sulla legge nazionale che regola i birrifici artigianali – varata nel 2016 e che pone delle regole alle lavorazioni (no pastorizzazione e filtrazione), all’autonomia dell’azienda (indipendenza legale ed economica da altri birrifici) e nei volumi di produzione concessi – è che “il legislatore è stato di manica troppo larga. Infatti, possono rientrare tra i birrifici artigianali quelli fino ad una produzione di 200.000 ettolitri, che è una quantità molto grande in quanto il maggior produttore artigianale italiano, Baladin, arriva, sì e no, a 50.000 ettolitri”.
Col Presidente è interessante approfondire i motivi del successo delle birre artigianali e non solo in Friuli Venezia Giulia, ma anche in Italia: “Al di là della passione che ci accomuna un po’ tutti, una componente essenziale è la nostra libertà di creare ricette”. Ascoltandolo ci viene da pensare che la creatività dei birrai artigiani potremmo paragonarla alla verve che hanno gli chef. Oltre a conoscere bene le materie prime, che in entrambe i casi sono della massima importanza per fare un prodotto di alta qualità, birrai e cuochi usano la loro creatività in maniera completamente libera per preparare chi la birra e chi il piatto. Ambedue le professioni, inoltre, possono inserire prodotti locali per sottolineare il territorio e la diversità. Se è scontato per gli chef, non lo è per la produzione di birra se guardiamo a quella industriale. Sono solo i birrifici artigianali che sanno valorizzare al massimo gli ingredienti locali che desiderano, per rendere uniche le loro birre. Infatti, oltre ai prodotti base – acqua, orzo, luppolo, lieviti – la birra si fa poi aggiungendo infusi di erbe, frutta, vino, uva passita e potremmo continuare.
In questa maniera il birrificio artigiano si distingue nettamente sul mercato perché assomiglia solo a se stesso. Come per gli chef, le ricette sono uniche e personali, il che garantisce loro l’unicità tipica del fare artigiano.
Prosegue Garlatti Costa: “La storia ci racconta che la birra nasce come bevanda aromatizzata fin dall’epoca egizia, quando si usavano i datteri per migliorarla. D’altronde la birra, preparata con ‘orzo e acqua’, è una bevanda dolciastra che sa di poco. La grande rivoluzione, sotto il profilo della ricerca di nuove sensazioni aromatiche, arriva con l’inserimento del luppolo, avvenuto grazie ai tedeschi, nel 1516, con l’Editto della Purezza. Da allora la birra è diventata ‘moderna’, tant’è che quella ricetta è tuttora valida ed è alla base della birra, soprattutto tedesca. Il luppolo ha permesso di amplificare di molto il profumo sia di dare maggior intensità al gusto. Gli inglesi, dall’alto della loro tradizione, si sono decisi ad usarlo solo nel ‘700. Prima adoperavano il Gruit, un miscuglio di erbe (la cui composizione era il segreto del birrificio) per aromatizzare e amaricare le birre che allora si chiamavano Ale, mentre quelle prodotte con luppolo le chiamarono beer. Definizioni ormai superate, perché Ale sta a significare birra ad alta fermentazione. In Belgio, per quanto riguarda il miglioramento aromatico, ancora oggi, nei pressi dei birrifici o nei dintorni delle città, si coltiva della frutta esclusivamente per la birra come, ad esempio, le ciliegie griotte che sono tipiche delle birre di Bruxelles”.
Garlatti Costa sottolinea come “questa libertà nell’uso degli ingredienti permetta di spingere sulla diversificazione del prodotto, costruendogli una personalità, fino ad arrivare all’unicità. Il che, in termini di strategia di marketing, permette alle birre artigianali di trovarsi spazi di mercato tra le potentissime maglie delle multinazionali”.
Di questa sfida creativa Garlatti Costa è un felice interprete.
Leggiamo la sua storia:
Il birrificio artigianale Garlatti Costa nasce nel 2012 e, due anni dopo, diventa agricolo. Nel 2016 Severino decide di lasciare il suo precedente lavoro per dedicarsi solo all’azienda di famiglia, dove lavora sua moglie e ultimamente anche il figlio Enrico, che si sta laureando in tecnologia alimentare. Ha scelto una tesi sulla birra col professor Buiatti per studiare gli aspetti economici confrontando i costi di produzione della birra artigianale con quella industriale. La parte curiosa del racconto di Severino – e che spiega la sua vocazione a produrre birra in proprio – e che, fino al 2016, aveva lavorato con Eliano Zanier, patron della Mr. Malt di Pasian di Prato, con il ruolo di venditore dei prodotti presso i nascenti birrifici artigianali non solo friulani, ma italiani.
Così ha visto nascere e crescere gran parte degli attuali birrifici, trasmettendo la passione anche al figlio Enrico. Non meraviglia, pertanto, che della nascita della birra artigianale italiana conosca ogni passaggio. Come era naturale che, dopo tanti anni passati non solo a vendere, ma a dispensare consigli a molti birrai neofiti, gli sorgesse il desiderio di produrla in proprio. Attualmente il suo birrificio ha una capacità annua di circa 600 ettolitri, che rientra nella media italiana dei birrifici artigianali che è di circa 500 hl. “Noi cresciamo lentamente; non abbiamo distributori perché vendiamo direttamente e prevalentemente in Regione, per cui non abbiamo dipendenti. Poi vedremo Enrico che decisione prenderà”. Di certo a Severino Garlatti Costa non fa difetto la creatività, in quanto è lui stesso che progetta le nuove ricette ed è sempre lui il mastro birraio di casa. Produce circa 12 tipi regolarmente, salva poi le birre ‘creative’ o legate a particolari momenti o ricorrenze dell’anno o ancora alle specialità stagionali. La produzione si vende per il 60% in fusti e il resto in bottiglia.
Opera anche per conto terzi. La più singolare tra queste produzioni è quella per conto dell’Università di Udine, la quale poi la vende nella sua azienda agricola Servadei a Basaldella, oltre che in qualche locale. “È una birra con lo zafferano e materie prime tutte friulane. Alcuni locali richiedono una birra prodotta in esclusiva per loro e la cui ricetta viene concordata con il cliente stesso. Poi ci siamo impegnati anche – e con successo – nella produzione di una birra ambrata fatta con l’uva Ucelut di Valeriano e stiamo sviluppando nuovi prodotti che uniscono il mondo della birra con quello del vino. Non mancano poi birre alla frutta come quella prodotta durante l’estate con aggiunta in fermentazione di lamponi”.
Il birrificio si trova nella zona artigianale di Flagogna, immerso nel verde, dove ha aperto, il fine settimana, anche il punto vendita, ispirandosi, dice, alle frasche del vino. Qui propone le sue birre con degli assaggi di prodotti locali di alta qualità.
Il posto è magico, seduti sulle panche sotto gli alberi, a pochi passi dall’Arzino, che poi si immette nel Tagliamento, dove si può fare il bagno. Siamo “nell’area balneare” di San Daniele. Altro aspetto distintivo del birrificio Garlatti Costa è stata l’importante scelta di diventare agricolo. Infatti possiede 4,5 ettari di orzo, quantità che copre il 90% del suo fabbisogno: “La maltazione dell’orzo avviene nell’azienda Stamag di Vienna (in attesa della realizzazione di una malteria nelle nostre vicinanze, magari in regione…), in quanto è l’unica che garantisca la restituzione del nostro orzo maltato. Aspetto, questo, per noi importantissimo, perché così facendo diamo un senso reale alla nostra filiera produttiva”.