Uno sguardo nel passato

Breve storia del comparto lattiero-caseario

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Storia del comparto lattiero-caseario: il perché di un oggi buio

di Enos Costantini

Enos Costantini, autore di talento, è stato professore di Zootecnia all’Istituto professionale di Cividale.

Per gentile concessione, pubblichiamo una sintesi della sua postfazione al libro di Giosuè Chiaradia L’universo dimenticato. Stalle, malghe, latterie nel Friuli occidentale, Forum, 2015.

Quella che segue è un’analisi imperdibile sulle cause che hanno portato al tracollo della nostra produzione casearia. Così Enos mi scrive nell’inviarmi il suo testo:

“… il piccolo era bello, il formaggio era buono, locale, equo e solidale, ecologico, democratico e partecipativo, era fatto col latte e il latte era fatto con l’erba, dal punto di vista alimentare eravamo sovrani e autonomi, in crescita felice, con prodotti tipici di filiera corta certificata, a km zero e ricchi di nutraceutici”.

Le Latterie sociali si sono estese dai monti ai colli e alla pianura. Sono ora circa 130, senza contare quelle turnarie: fra qualche anno non vi sarà villaggio senza il suo caseificio sociale. L’industria del latte rende al Friuli più di tre milioni di lire all’anno, così scriveva Gualtiero Valentinis a pag. 75 della guida intitolata In Friuli data alle stampe nel 1903. Il Valentinis aveva intuito che il fenomeno era in piena fase di sviluppo e anticipava quello che poi sarebbe diventato uno slogan: “ogni campanile una latteria”. Il boom delle latterie segue una curva perfettamente sigmoide, la classica curva dello sviluppo, fino al 1916 quando il loro numero raggiunge la bella cifra di 321 con 584.000 quintali di latte lavorati.

Nel 1918 le latterie sono ridotte a 21, con 35.000 quintali lavorati: un altro indice del disastro provocato dalla guerra.

Malgrado il conflitto avesse quasi azzerato il patrimonio bovino (requisizioni italiane prima, fame austroungarica poi) il “Risorgimento” (ci piace applicare all’allevamento questa parola!) fu rapido: nel 1924 le latterie erano ben 425 e lavoravano 775.000 quintali di latte. La media, quindi, era di 1.834 quintali annui per ogni caseificio, molto vicina a quella d’anteguerra: ciò può essere il significativo indice di una produzione che si basava essenzialmente sulle risorse del territorio.

E i friulani, sia detto a disdoro di chi continua ad affermare che non sanno “mettersi insieme”, non mollarono la presa. Ecco alcuni numeri pescati qua e là in diverse fonti: nel 1927 le latterie erano 485, nel 1929 superarono la boa delle cinque centinaia per arrivare a 533, nel 1937 toccarono il bel numero di 585: in quell’anno contavano la bellezza di 55.000 soci, lavoravano 1.140.000 quintali di latte, producevano 106.000 quintali di formaggio e 16.000 quintali di burro.

Il numero era destinato a crescere ulteriormente; salì, infatti, a 627 nel 1940, per scendere a 481 nel 1945 (maledette guerre!). Ma ci fu una ripresa massiccia: nel 1957 le latterie erano ben 642 e il Friuli poteva dirsi “saturo” di questa industria, di questa forma artigianale di trasformazione così capillarmente diffusa.

Un’ulteriore osservazione non sarà peregrina: il settore poté svilupparsi perché basato essenzialmente sull’erba, un bene riproducibile, oggi si direbbe una produzione sostenibile, che la piovosità del Friuli certo favoriva. Prati stabili e prati di erba medica: ecco il segreto. Uno sviluppo basato su input (scusate la parola) esterni (fertilizzanti, mangimi) all’epoca non sarebbe stato possibile perché tali fattori della produzione non esistevano o non erano alla portata dei nostri agricoltori.

Crediamo che il fenomeno sia (stato) unico in Italia e, forse, nel resto del Mondo.

Ma negli anni Sessanta si scoprono le “economie di scala” e vengono in auge paroloni quali “modernizzazione”, “concentrazione” e “razionalizzazione” col relativo accanimento che si riteneva terapeutico.

In pratica non veniva razionalizzato un bel niente, l’intera rete si sgretolava e collassava, sacrificata sull’altare di ciò che si riteneva “modernità” e “economicità”. Fu economia per chi? Alla chiusura di ogni latteria faceva seguito la chiusura delle stalle ad essa legate. Era perdita di posti di lavoro, di reddito, di socialità. Nessuno si stracciò le vesti per tutto ciò; pare che solo quando chiude una fabbrica si celebri tale liturgia.

La fine delle latterie di paese avrebbe risolto i problemi dell’allevamento, lo dicevano i politici e i loro prezzolati consulenti delle università: no, non li risolse. O, se si vuole, li risolse per “chiusura dell’attività”, una “soluzione finale” perpetrata dall’avanzare di interessi esterni e lontani, molto lontani. La cura mirava alla morte del paziente. Gli allevatori rimasti sulla breccia, spesso autentici missionari, non hanno visto aumentare il prezzo del latte in proporzione al numero di latterie e di aziende consorelle che andavano ineluttabilmente chiudendo”.

1961: nella percezione delle élite

Nel 1961 vide la luce un bel volume (splendido e lussuoso per l’epoca) tutto dedicato alla nostra regione che veniva illustrata, in 520 pagine, da Giorgio Valussi, assistente di geografia politica ed economica all’Università di Trieste (collana Le Regioni d’Italia, UTET).

Nella parte economica dell’opera vi è un capitolo dedicato all’industria alimentare, ma vi cerchereste inutilmente le nostre latterie. Le troviamo nel capitolo dedicato all’allevamento del bestiame e questa impostazione suggerisce come il settore rimanesse “roba da contadini”, non degno di entrare nell’empireo dell’industria. Riportiamo quanto scrive il geografo summenzionato perché le sue parole sono testimonianza chiara di quella che era la percezione delle élite culturali nei confronti di un settore economico così radicato in Friuli e che tanto ne influenzava il vivere civile (pag. 253):

“La produzione lattiero casearia è in crescente aumento e soddisfa il consumo regionale; ha raggiunto nel 1958 i 2.900.000 quintali di latte, corrispondente al 4,2 % della produzione nazionale, figurando così al quinto posto fra le regioni italiane dopo la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Veneto e il Piemonte. I tre quarti del latte vengono trasformati in burro e formaggi da oltre 650 latterie sociali, in cui sono organizzati i produttori. È questo un magnifico esempio di cooperativismo rurale, ma purtroppo il frazionamento della produzione è eccessivo, a scapito dei costi e della qualità. Le latterie della provincia di Udine, che nel 1872 erano solo 3, sono salite a 263 nel 1903, a 540 nel 1931 e a 638 nel 1957, mentre il numero dei soci passava dal centinaio iniziale ai 61.700 attuali. Il formaggio prodotto è di tipo Montasio, piuttosto magro e salato, che non incontra molto il gusto del consumatore cittadino”.

Nel testo originale sono undici righe e mezza per un’economia che toccava direttamente 61.700 famiglie! Come termine di paragone prendiamo un’altra attività economica regionale: il Valussi dedica quasi otto pagine al porto di Trieste.

Nel 1971, esattamente dieci anni dopo, vedeva la luce una nuova edizione dell’opera suddetta. L’autore, forse perché nel frattempo divenuto direttore dell’Istituto di Geografia della Facoltà di Lingue e Letterature straniere con sede a Udine, ha un’opinione completamente opposta circa il formaggio delle latterie sociali friulane (pag. 307): “Il formaggio prodotto è di tipo Montasio, nome che gli deriva dalla maggiore montagna delle Alpi Giulie occidentali: si tratta di un formaggio grasso e poco salato, di cui in Friuli si fa larghissimo uso…”.

E non poteva mancare il ritornello (pag. 308): “… tutto il settore lattiero caseario abbisogna di un riassetto dimensionale, per non rischiare di venire compromesso dalla concorrenza europea”.

Alla bora di Trieste il Valussi dedicava tre pagine.

Abbiamo compulsato anche altri libri che riguardano la nostra Regione, di solito reperiti nelle collane comprendenti tutte le regioni d’Italia. Si tratta di opere di divulgazione, rivolte prevalentemente a lettori giovani. Ne abbiamo sottomano quattro, rispettivamente del 1965 (ancora fieramente irredentista), del 1978 (ma sicuramente scritta qualche anno prima), del 1983 (la più scanzonata) e del 1986. Tutte toccano gli aspetti economici della Regione, nessuna menziona le latterie sociali. L’ultima, quella del 1986, mette in copertina la bella foto di un ragazzino che allatta al secchio un vitello di razza Pezzata Rossa. E all’interno vi sono un paio di pagine dedicate alle razze bovine locali, ma senza neppur accennare alla loro ricaduta economica attraverso la trasformazione del latte.

L’impressione che si ricava è che se gli studiosi e i divulgatori di geografia, e di geografia economica, hanno un approccio così superficiale ad un settore fondamentale per la vita del Friuli, ben poco c’è da attendersi da altri, dagli intellettuali, dagli “studiati”, dalle élite che contano. Lo stesso cittadino che si avviava, forse con sua intima e inconscia felicità, a diventare “consumatore”, non comprendeva la gravità che il crollo dell’economia basata sulle risorse locali poteva avere per il suo futuro.

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Il modello eravamo (avremmo dovuto esserlo) noi

di Enos Costantini

Nel 1961 la nostra Regione produceva 3.883.413 q.li di latte, per la maggior parte (93,3 %) nella allora provincia di Udine. Come produzione assoluta avevamo mantenuto il quinto posto dopo Lombardia, Emilia, Veneto e Piemonte. Tale dato va tuttavia relativizzato: la Lombardia è tre volte più grande della nostra regione, l’Emilia Romagna 2,86 volte, il Veneto 2,3 volte e il Piemonte 3,2 volte.

La provincia di Udine veniva messa a confronto, onde farla passare per parente povera, con le provincie più lattifere d’Italia. Eppure dal confronto usciva a testa alta, essendo (dati del 1964) settima dopo Cremona, Mantova, Milano, Reggio Emilia, Brescia e Pavia.

Eravamo, insomma, i primi della classe tanto nella produzione che nella trasformazione del prodotto fatto in forma cooperativa.

Latte di alta qualità casearia e, contemporaneamente, produzione di carne: la quadratura del cerchio. Un esempio virtuoso da presentare nelle altre Regioni.

Ma non andava bene, non poteva andare bene: troppo sobrio, troppo basato sulle risorse locali, troppo scarsi gli input di origine extra-aziendale e extra-regionale. Nell’ottica dell’agrobusiness emergente e degli economisti al seguito, con trombettieri e turiferari vestiti da tecnici, era un cattivo esempio.

Il modello indicato come esemplare era la Lombardia, regione già in fase di americanizzazione con razza Frisona al seguito.

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Lombardia – U.S.A.

di Enos Costantini

Tale modello venne chiaramente indicato nel 1966 quando uscì la relazione della commissione di studio istituita presso l’Assessorato regionale dell’agricoltura (Relazione 1966). Il documento prodotto da questa commissione, presieduta dal prof. Mario Bonsembiante, non è privo di meriti e di illuminanti statistiche. Non riusciamo a leggervi, però, una “via friulana” al settore lattiero-caseario. Si citano le latterie lombarde che vengono identificate come “avanguardia” (di che cosa?) per la quantità di latte lavorata al giorno e, tormentone di altre relazioni e di successivi convegni, si menziona, con per nulla celata ammirazione, la latteria cooperativa di Soresina (Cremona) che poteva lavorare 2.000 q.li di latte al giorno. Vengono sciorinati, poi, esempi presi dalla Svezia, dall’Olanda, dal Belgio e, con relative considerazioni completamente errate, dalla Baviera e dalla Francia.

Avevamo bisogno di un progetto che partisse dalla nostra realtà, con quello spirito di servizio e quella concretezza che quasi un secolo prima aveva portato un manipolo di progressisti a rivoluzionare la nostra agricoltura, per poi a condurla con mano sicura anche attraverso tempi assai difficili.

I modelli forestieri, reiteratamente presentati negli anni Sessanta e Settanta servivano solo a riempire il vuoto di menti che nulla avevano da proporre. E servivano, altresì, a umiliare i nostri agricoltori per renderli succubi di un pensiero modernista che era solo un’aggressione commerciale. Nessuno diceva che un farmer americano, con tutti i suoi ettari e i suoi trattori, non navigava nell’oro.

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Il ‘68 delle latterie

di Enos Costantini

Il 23 marzo 1968 si tenne a Udine il convegno Prospettive della zootecnia nel Friuli Venezia Giulia che, come recitano gli atti (Prospettive 1968), fu il “primo convegno zootecnico regionale organizzato dall’Assessorato dell’Agricoltura Foreste ed Economia montana della Regione Friuli – Venezia Giulia”. La relazione introduttiva venne tenuta dall’assessore all’agricoltura avv. Antonio Comelli, ma i veri mattatori furono il prof. Mario Bonsembiante dell’Università di Padova e il prof. Vittorio Bottazzi dell’Università “Sacro Cuore” di Piacenza. La Regione, ancora “in erba”, dimostrò quindi la precisa volontà di affidarsi alle università, trascurando quegli esperti locali che erano eredi di una lunga, consolidata e gloriosa tradizione. Il dott. Salvino Braidot, indimenticato successore di Enore Tosi, era tra il pubblico.

Il prof. Bonsembiante, al quale era stato affidato in precedenza lo studio sulla zootecnia della regione sopra menzionato (Relazione 1966), parlò con un minimo di cognizione di causa, ma nascondendosi dietro un continuo sciorinare tecnica e sperimentazione il cui modello era sempre l’America, intesa come U.S.A.: “… in un recente lavoro economico condotto negli stati del Colorado e negli stati della California (sic), che sono forse gli stati più importanti produttori di carne dell’America hanno dimostrato che le dimensioni più economiche per la produzione della carne sono quelle di 10.000 capi di bestiame”. Una straordinaria notizia per gli agricoltori friulani del 1968.

Il prof. Bottazzi, che di Friuli doveva sapere ben poco, parlò molto di uniformazione nella produzione del latte (dovrebbe essere uguale tutto l’anno), di industrializzazione della produzione (allevamenti con almeno 150 – 250 bovine), di produzione di latte per kmq, di concentrazione della trasformazione (“il Friuli ha una struttura prettamente artigianale con una produzione di formaggio che non potrà mai essere sufficientemente uniforme”); parlò molto degli altri stati europei, si intrattenne parecchio sul grana, ma senza neppure tentare un parallelo tra grana e Montasio…

Insomma, anche se espressa velatamente e in modo curiale, la parola d’ordine era “concentrare la trasformazione”. Detto in altre parole: chiudere le latterie di paese per farne poche e grandi.

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Maledetti casari

di Enos Costantini

Il prof. Vittorio Bottazzi, direttore dell’Istituto di Microbiologia dell’inclita Università “Sacro Cuore” di Piacenza, così si espresse durante il convegno del 23 marzo 1968: “Oggi il caseificio è diventato un’industria, o sta diventando sempre più un’industria. Come tale ha bisogno di tecnici, non ha più bisogno di personale empirico, non ha più bisogno del casaro tradizionale, ma ha bisogno di tecnici profondamente preparati” (Prospettive 1968, 122-123).

È la solita manfrina che abbiamo sentito in quegli anni ripetere anche nel settore vitivinicolo. E dietro c’è una posizione ideologica, non tecnica. I casari erano preparati, preparatissimi, altrimenti i soci della latteria li avrebbero mandati via. Empirici? E che male c’è? Pare non sia necessario conoscere la formula della caseina per fare del buon Montasio. E il discorso è anche vilmente interessato: per fare buoni tecnici, ovviamente, ci vuole l’università. Questa ci guadagna in studenti, che portano soldi, e ci guadagna in potere nel settore.

Ma le tesi del preclaro prof. Bottazzi dovettero convincere i nostri amministratori regionali se gli commissionarono lo studio sopra accennato. Questo partì subito dopo il convegno e durò qualche anno se la relazione venne pubblicata, con un ciclostilato di assai modesta fattura, solo nel 1974.

Anche nella relazione ce n’è per i casari, e ad abundantiam.

Merita leggere, per capire ancora meglio l’ideologia, mascherata di efficienza tecnica, che permea il pensiero (?) di tali consulenti:

“Per la natura tipicamente artigianale che caratterizza il caseificio in generale e quello turnario in particolare, tutta l’unità di trasformazione viene ad essere calibrata sulla figura chiave del casaro (sottolineato nel testo). In molti casi si tratta di artigiani che controllano l’intero processo di caseificazione e che assolvono anche alle più importanti funzioni, sia per ciò che concerne la semplice routine di produzione e di gestione sia e soprattutto per i rapporti sempre più importanti ai fini dei redditi dei produttori di latte del caseificio nei confronti del mercato”.

In sostanza il casaro rappresenta l’elemento di continuità della latteria, grazie ad un patrimonio di tradizione nel settore caseario. Infatti egli esplica un’azione di vero e proprio coordinamento, anche sul piano economico-commerciale, della intera impresa di trasformazione.

Giova qui sottolineare ulteriormente il ruolo che assume la figura del casaro, stante la sua importanza nella caratterizzazione delle latterie e nella conservazione dello status quo, sia per quanto concerne l’organizzazione delle latterie turnarie, sia e soprattutto nell’alimentare il perdurante assenteismo dei produttori nelle fasi più rilevanti della gestione dei caseifici.

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Eppure si progrediva

di Enos Costantini

Dal 1930 al 1961 il numero di vacche diminuì del 35% in montagna (abbandono delle terre più difficili), ma aumentò del 32,5% in pianura grazie ad una miglior cura delle superfici foraggere.

Nel 1951 c’erano 620 latterie con 1.370.000 quintali conferiti; nel 1963 c’erano 614 latterie (numero pressoché immutato) con 2.137.000 quintali conferiti. Il progresso quantitativo era stato notevole e il frazionamento della trasformazione non incideva sulle quantità prodotte; sembrava, al contrario, favorirle. 767.000 quintali in più non sono pochi per un allevamento ancora basato sulle risorse foraggere aziendali.

La produzione di formaggio era passata da 132.287 quintali a 169.443, quella del burro da 13.925 quintali a 23.974.

La nostra agricoltura, basata sulla zootecnia, era quindi “lanciata”; bastava trovare il modo di assecondarne lo slancio anche nell’evoluzione dei tempi.

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Nei primi anni Ottanta

di Enos Costantini

Nel 1980 c’erano in regione 298 caseifici che lavoravano 2.475.741 q.li di latte, cioè l’81% della produzione regionale che ammontava a 3.045.989 q.li. Le bovine da latte erano 88.934 e i soci delle latterie 20.298.

Nel 1981 venne data alle stampe, a cura del funzionario regionale Mario Castagnaviz, una Indagine sulle latterie del Friuli. La premessa alla detta Indagine, firmata dall’allora assessore all’agricoltura dott. Alfeo Mizzau, evidenzia come non tutti, anche nell’establishment, si fossero fatti irretire dalla ideologia del “sempre più grande”. Così scrisse il Mizzau:

“Il tasso di lavorazione nelle latterie con una lavorazione fino a 10 quintali giornalieri si aggira mediamente tra le 5.000 e le 5.500 lire al quintale. In quelle tra i 30 e i 100 quintali il tasso scende tra le 2.800lire  (30 – 50 q.li) e le 2900 lire (50 – 100 q.li). La differenza è quindi di 2.400 lire il quintale. Sembrerebbe di poter concludere indicando la convenienza nella concentrazione. Ma non si può dimenticare che nella concentrazione si accendono costi economici e sociali non prima considerati:

  • costo del centro di raccolta di circa 1.550/3.000 lire per quintale;
  • costo del trasporto di circa 500/2.000 lire per quintale;
  • e quel che è altrettanto grave il costo sociale della chiusura delle piccole stalle;
  • ed ancora un ulteriore costo sociale con la chiusura di una sede di incontro, di confronto e di partecipazione per una comunità paesana” (Castagnaviz 1981, 5-6).

Tutto mi divideva da Alfeo Mizzau, ma c’era un sentire comune almeno per questi aspetti, non secondari, dell’economia e della società friulane. Qualche anno dopo, quando il Mizzau venne mandato al parlamento europeo, ci fu tra noi qualche scambio epistolare in seguito ad alcuni miei articoli apparsi sulla stampa locale “alternativa”. In una lettera l’onorevole Mizzau mi disse di concordare in buona parte con le mie opinioni e le mie idee, ma ogniqualvolta si trovava ad esprimerne di simili in ambiente politico veniva accusato di “veteroruralismo”.

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